venerdì 7 dicembre 2018

Le storie di vita degli utenti di “Villa Angelina”.




Come dice Alessandro Baricco: “Non siamo personaggi, siamo storie”. Oggi vogliamo presentarvi “Villa Angelina” di Sora, la comunità-alloggio per persone adulte con problematiche psico-sociali gestita dal Consorzio Intesa. Gli utenti sono tredici e di tipologia molto eterogenea. Tredici persone con trascorsi di vita e storie complesse alle spalle che hanno trovato a “Villa Angelina” un po’ di sollievo, tanto affetto e cura da parte degli operatori. La nostra intenzione è quella di raccontarvi con delicatezza, garbo e pudore, la storia di ognuno di loro, nel rispetto della loro privacy e vissuto. Per questo motivo utilizzeremo dei “nomi di fantasia” ma le storie restano. E sono le loro.
Vorremmo cominciare con quella di “Orsa Maggiore”, la chiameremo così, come la costellazione, che ha avuto un vissuto fatto di abusi, e di suo figlio “Orsa Minore”, e che insieme vivevano una vita fatta di stenti e disagio. Disorientata. Spezzata. Cominciamo con loro non perché ci sia una predilezione, ma semplicemente perché con loro ha preso vita la comunità “Villa Angelina”, comunità fortemente voluta da Antonio Alberto Santucci che di queste persone era l’amministratore di sostegno, il tutore. Antonio Alberto Santucci auspicava una comunità che indicasse “la stella polare” per un buon cammino. E “Orsa Maggiore” e “Orsa Minore” in questa comunità-alloggio la loro strada l’hanno ritrovata. Conducono le loro vite autonomamente, coadiuvati dagli operatori, eppure assieme all’interno della comunità. Quando “Orsa Minore” la sera a volte esce, “Orsa Maggiore” si mette a letto, ma senza mai spegnere la luce. Aspetta, come solo una madre fa, che il figlio sia rientrato. Solo dopo qualche chiacchiera ed un saluto si addormenta. “Stella Maggiore” ha portato con sé a “Villa Angelina” anche “Caccettella”, la cagnolina da cui non si sarebbe separata mai. Stando “Stella Maggiore” su una carrozzella, si accerta sempre che le sia stato dato da mangiare, chiede sempre di lei e appena possibile, con l’aiuto degli operatori, scende in ascensore e va a trovarla nel bel cortile. Una storia d’amore interrotta e poi ricomposta che commuove e dà speranza. E brilla più di prima. Come accade nella metafora e tecnica del kintsugi: l’arte giapponese delle preziose cicatrici. Rompendosi, la ceramica prende nuova vita ricomponendo, senza nasconderle, ma evidenziandole, le linee di frattura dell’oggetto, che diventa ancora più pregiato. Grazie alle sue cicatrici. L’arte di abbracciare il danno, di non vergognarsi delle ferite, è la delicata lezione simbolica suggerita dall’antica arte giapponese del kintsugi.


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